domenica 21 giugno 2009

Scrivolo cambia casa

Ad appena 2 mesi d'età, Scrivolo fa il suo primo trasloco. In piena crisi economica, si è comprato casa e ci si è trasferito.

Appuntamento con il prossimo racconto (con ogni probabilità, lunedì 22 giugno) al nuovo indirizzo!

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martedì 9 giugno 2009

La mia fila

L'estate era ormai arrivata. Anche se in realtà mancava ancora 1 mese al famoso 21 giugno, il caldo regalava a tutti voglia e forse opportunità di vacanze.

Anche la vita sul pullman sembrava allineata a quel susseguirsi anticipato di stagioni. L'autobus in quelle settimane era deserto.

Quando salii, trovai l'interno abitato da alcune tipologie di viaggiatori ormai standardizzate. In fondo “i ragazzacci” come quando ero piccolo, nelle gite o per andare a scuola: le ultime file erano riservate ai più grandi, ai bulli, maschi e femmine, quelli che facevano più casino. Arrivavano dal fondo i cori, le battute più pesanti sugli altri passeggeri (ragazze particolarmente carine, cessi universali, o il personaggio che per quel turno era preso di mira). Ma arrivava dal fondo anche la voglia di divertirsi.

Le grida che proveniva dal fondo dell'autobus non lasciavano proprio adito a dubbi, “i ragazzacci” erano seduti nelle ultime file. Ma quel giorno, a differenze di 15 anni prima, le risa e le grida lasciarono presto spazio al sonno, che proveniva dalla giornata di lavoro.

Nella prima parte dell'autobus solo 4 persone, oltre l'autista. La rossa, sempre in prima fila, come la vecchia professoressa delle gite. Quel giorno era orfana del suo complemento, e allora due chiacchiere con l'autista certo le faceva, ma c'era tristezza per quel sedile vuoto.

Gli altri passeggeri, quelli di mezzo, così come quando prendevo il pullman per raggiungere il liceo, lontano 18 km, non lasciavano tracce della loro presenza: magari due parole con la persona affianco, ma sempre sottovoce, per non disturbare.

Io come sempre scelsi il mio posto tra le penultime, non ultime, file.





Leggi anche la prima puntata di "In autobus": La rossa e la gialla

lunedì 8 giugno 2009

Diritto di voto

L’auto l’aveva accompagnata fino all’ingresso del seggio: voleva andare a votare anche lei, a 86 anni compiuti le gambe forse non c’erano più, ma la testa, sì. E votare era un suo diritto.

Sua figlia Chiara aveva cercato di dissuaderla: “E’ una fatica, mamma! Te la senti veramente?”. Sì che se la sentiva, doveva far vedere che era ancora viva, non solo un corpo ormai minuto, da far lavare a Chiara perché non ce la faceva più a farlo da sola, da far vestire perché piegarsi era ormai diventato impossibile.

Vestirsi, quella mattina, era stata una sofferenza; si erano dovute fermare, due volte, perché Maria non ce la faceva più. Tutta sudata, dopo la fatica del bagno, ci erano volute quasi due ore per vestirla. Le calze, nere, al ginocchio; il vestito, il più nuovo, blu scuro con piccoli disegni neri; le scarpe di panno, nere e comode per i suoi piedi.

Nonostante fosse giugno inoltrato, aveva messo anche il golf nero, con tutti quei bottoni che anche Chiara aveva fatto fatica ad allacciare.

Il bastone lo aveva preso suo genero, lei e Chiara avevano cominciato l’avventura della discesa delle scale. Quando era giovane le saliva a due gradini per volta, con la sporta in mano; arrivava su, alla porta, con il cuore in gola, ma allora non era una fatica. Adesso, scendere e salire quelle scale le era penoso. Ormai le articolazioni non l’aiutavano più, la mano stretta al corrimano di legno, lucido, lucido per anni di uso, un passo per volta, con Chiara davanti a lei, per impedirle di cadere.

Anche per Chiara quelle scale stavano diventando un problema, aveva sessanta anni, ma tanto ormai da lei veniva una volta alla settimana, abitava in una bella casa con l’ascensore; Maria non era mai voluta andare via di lì: quella casa era la sua, ci era vissuta per anni con il suo povero Elvio, e ci sarebbe morta.

Chissà che fatica, a portarla fuori, quando sarà il momento, pensò; come quando quindici anni prima suo marito era morto: non sapevano come fare, quella cassa andava in soqquadro da per tutto, avevano pensato addirittura di farla passare dalla finestra poi, a forza di girarla, erano riusciti ad arrivare alla strada; che pena saperlo lì dentro, sballottato e maltrattato anche in quella sua ultima uscita di casa. Chiara, visto come mettevano le cose, l’aveva portata fuori ad aspettare, per non farla soffrire ancora; ma qualche bestemmia dei ragazzi della Misericordia, detta a denti stretti, l’aveva sentita anche lei. Sì, c’era da prendersela anche con Quello lassù per questa beffa finale; ma Lui non ti vuole proprio risparmiare niente!

Si fermarono a mezze scale, nel pianerottolo accanto al portone dei vicini, con Chiara che, ancora una volta, pregandola “Mamma, stai ferma, reggiti bene!” era andata a premere l’interruttore della luce a tempo che, ogni tre minuti, riportava nella notte più completa quello stretto budello da cui cercavano di uscire. Riprese un po’ il fiato, sentiva, sotto l’odore di borotalco, il sudore freddo della fatica. I vecchi puzzano, lo aveva sempre detto, e cercava di mettere meno a disagio possibile chi le stava vicino; si lavava, un po’ alla meglio, il più spesso possibile, in attesa del bagno settimanale con Chiara; il barattolo verde, ormai di plastica anche quello, del suo vecchio borotalco era sempre sulla mensola del bagno, a portata di mano. Sua mamma lo aveva usato per i figli, lei per Chiara e dalla casa non era mai uscito. Quell’odore di fresco, quella polvere bianca che le cadeva qua e là sulle mattonelle scure del bagno le faceva ricordare Chiara quando era piccola, Marta, la nipotina e anche, tanti anni prima, la sua povera mamma.

Almeno lei, la sua mamma, non aveva sofferto quanto soffriva ora lei; non aveva ancora l’età di Chiara, quando l’avevano trovata morta, in cucina, al podere. Era rimasta in casa per preparare il pranzo, prima di raggiungere il resto della famiglia al lavoro nei campi. Non l’avevano vista arrivare, ma non si erano preoccupati, era ancora giovane, forte, chi mai poteva pensare… E così l’avevano trovata solo quando erano rientrati per pranzo.

La discesa per le scale era ripresa, piano; aveva poco d’altro a cui pensare, doveva prestare attenzione a dove metteva i piedi e a tenersi salda al corrimano. Ma cosa ci faceva ancora quaggiù, quanto disturbo dava a Chiara e a suo marito, quanto tempo avevano perso, e perdevano, dietro a lei, dietro a questa vecchia che non era più buona a nulla.

Finché c’era stato il suo Elvio era stato diverso, la casa era viva, anche la domenica ci si alzava presto per preparare un pranzo speciale per tutti, e il sabato a spennare un pollo o, se era tempo di caccia ed Elvio era stato fortunato, a pulire un po’ di cacciagione. Era una gioia quando la figlia, il genero e i nipoti arrivavano a casa; “Non arrivate prima delle undici” era la frase di tutte le settimane. Chiacchiere, rumore, la cucina in disordine e tutti i fornelli impegnati, sotto il controllo suo e di Chiara. Poi, rimasta sola, la voglia di fare festa era passata, il piacere di cucinare anche; qualche volta il genero la veniva a prendere, la domenica; mangiavano piatti di rosticceria, i nipoti erano con le loro famiglie e si ritrovavano solo loro tre. Aveva smesso di festeggiare la domenica, ormai un giorno come un altro; preferiva rimanere a letto riposarsi un po’ di più, e poi rassettare con calma la casa, con gli acciacchi della vecchiaia che la facevano sempre più lenta e meno capace.

Il portone era aperto, Paolo lo teneva spalancato; dalla strada veniva una luce chiarissima, fastidiosa. Prese il bastone dal genero appena mise i piedi sul marciapiede, si appoggiò bene e subito si fermò per mettersi gli occhiali da sole, senza i quali non usciva più di casa. Pochi passi e, piano, piano, con Chiara che l’aiutava a piegare le gambe, si mise a sedere in auto. Paolo, amorevolmente, le allacciò la cintura di sicurezza; ma cosa aveva paura, di fare un incidente, di farla sbattere contro il parabrezza e di farla morire? Era questo che pensava ma non disse niente. Si fece forza: aveva voluto lei quel viaggio e doveva essere all’altezza; ora poteva riposarsi un po’, respirare più adagio; dalla manica del golf tirò fuori il fazzoletto per asciugarsi il naso che le stava gocciolando, per sentire l’odore del borotalco, per calmare l’affanno.

Chiara cercava di farla parlare ma si accorse delle difficoltà della mamma, rimase in silenzio, per qualche minuto; una carezza sulla testa, dal sedile di dietro, per farle sentire che le voleva bene, che era lì, lei, a badare che non le succedesse nulla di male.

L’auto si era fermata davanti all’ingresso della sezione, ma c’era da fare ancora tutto un tratto a piedi, per fortuna in piano, senza scale. Lentamente, sotto braccio a Chiara e appoggiandosi un po’ anche al bastone, camminò chiacchierando lungo i due lunghi lati del porticato di quel bel chiostro, accanto alla chiesa. Sentiva l’aria fresca dentro quelle vecchie mura, quell’odore di muffa e di anni; “Chissà, pensò, forse anche io ho questo odore.”

Al seggio furono gentilissimi. La presidente la accolse con affetto (era una delle elettrici più anziane) le porse le schede e il lapis copiativo per il voto, addirittura la accompagnò fino alla cabina, scostandole la tenda per farla entrare. “Il bastone, lo appoggi lì accanto al piano – le disse – e faccia con calma. Non c’è fretta”; le richiuse la tenda alle spalle, per lasciarla alla sua riservatezza.

Maria poggiò il bastone, mise le schede sul tavolinetto, e le aprì. “Quante pieghe – pensò – e quanti partiti!”. Spesso votare era complicato e, quando il suo Elvio era ancora vivo e i partiti mandavano la pubblicità elettorale, per evitare di fare errori avevano deciso di andare al seggio portandosi dietro le schede con le indicazioni di voto che il loro partito mandava a casa. Poi tutte quelle schede colorate non erano più arrivate, chissà, forse il loro voto non interessava più a nessuno, e allora avevano cominciato a prendere nota, con qualche difficoltà, dalla TV, della posizione del simbolo che dovevano votare.

Anche questa volta aveva fatto così, non perché non si ricordasse chi votare, ma per evitare errori: il simbolo, la preferenza… Aveva fatto tutta quella fatica e non voleva che il suo voto venisse annullato. Scartocciò i suoi fogli, cosa importava se da fuori la sentivano, mise i suoi voti, rimise nella borsa le carte con gli appunti. Ecco fatto. Aveva votato.

Ora doveva solo ripiegare le schede, prendere il bastone e uscire. Cominciò a piegare una delle schede, ma non le riusciva richiuderla seguendo le piegature. La riaprì completamente, e riprovò. Niente da fare, non le riusciva piegarla a dovere. Le montò la stizza; provò con l’altra, niente da fare. Ma come diavolo avevano fatto a fare una cosa così complicata? Gli occhi le si velarono di lacrime, dalla rabbia. “Chiara!” chiamò.

“Che c’è, mamma?” rispose la figlia, poco distante, mentre la presidente del seggio e la segretaria si erano alzate.

“Non riesco a piegare la scheda, vieni ad aiutarmi”. Chiara fece qualche passo, per avvicinarsi alla cabina. La presidente del seggio la fermò: “Signora, lo sa, non può entrare!”. “Entri lei, allora”. “Non posso nemmeno io. Signora Maria, ristenda le schede sul tavolo, riprovi con calma, via, ha tutto il tempo che vuole, ma noi non possiamo entrare, dovremmo annullarle il voto!”

Maria cercò di calmarsi, riaprì le due schede, ma ormai non c’era più niente da fare: le aveva piegate e ripiegate così tante volte che non sapeva più come fare. Ci provò e riprovò, piangendo dalla disperazione, ma proprio non trovava il verso giusto.

Quando decise di uscire dalla cabina aveva il bastone in mano e le due schede, aperte, nell’altra. Non piangeva più, la faccia le si era come pietrificata, le lacrime si erano fermate qua e là, sulle rughe delle guance, ma gli occhi erano asciutti.

A capo chino rese schede e lapis alla presidente, che le mormorò qualche imbarazzatissima parola di conforto, e poi dovette annunciare, ad alta voce, la nullità del suo voto. Nel seggio si era fatto un silenzio doloroso, compassionevole, imbarazzato. Maria non disse una parola, ingobbita su se stessa, al braccio di Chiara che la stringeva e le carezzava i capelli, mormorandole parole di consolazione; strascicò i piedi fuori dal seggio, la testa bassa, sfiorando l’urna con la mano nocchiuta.

martedì 26 maggio 2009

L'Università

Di nuovo la sveglia, non sembrava neanche di aver dormito. Antonio si alzò, i jeans e la camicia, i libri. Alla fine il giorno dell'esame era arrivato. Arrivato in facoltà, andò subito a vedere nella bacheca di ateneo in quale aula si tenesse l'esame. “Ciao Alberto, anche tu l'esame?” “No, sono solo venuto a vedere, non ho ancora studiato, lo preparo per luglio e poi via al mare.” “Dove vai quest'anno?” “Ho prenotato in Grecia, ho una cugina là” “Ah, beato te... Si, sono io.” L'assistente aveva cominciato a fare l'appello. Antonio era il quinto. “Alberto, hai fatto colazione? Ti va un caffè? Se non mi sveglio...” “No, grazie Antonio, ma ho già fatto colazione a casa.”
Il professore cominciò ad interrogare, due 18, un bocciato, un 30 e infine Antonio.
Erano le 11.40 quando il libretto di Antonio rimase chiuso per l'ennesima volta. Quel Riccardi non voleva proprio metterla quella firma sul suo libretto. Antonio non aveva neanche voglia di mangiare e andò a sdraiarsi sul letto, la sera avrebbe di nuovo corso per tutta la città col suo motorino e il suo carico di margherite e birre.

“Ieri sera siamo andati a prendere quel tale!” “Chi? Di chi parli?” “Di quel tizio strano, quello che dice che la terra gira intorno al sole!” “Ah, quello dei Galilei...” “Si, si proprio quello. Abbiamo sfondato la porta e siamo entrati, era sul tetto con quel maledetto cannocchiale” “Ha provato a scappare?” “No, e dove volevi che andasse? Insomma, l'abbiamo preso, qualcuno gli ha anche sputato. In basso c'era anche uno degli scagnozzi del vescovo...” “L'avete portato al carcere?” “Certo, l'abbiamo portato in carcere e ora l'aspetta un bel processo e non credo che la farà franca, il vescovo è incazzato nero.” Finirono il vino e tornarono alle proprie vite.



Leggi anche la prima puntata di "Antonio e Antonio": Terra Conquistata

lunedì 25 maggio 2009

La Teoria Generale

    Il professor Birgham era arrivato a superare la sessantina percorrendo la stessa strada di tutti i suoi colleghi: anni di subordinazione al precedente titolare della cattedra, studio accanito e tante, tante ricerche, tanti incarichi, gravosi e non di prestigio, da sopportare per andare avanti; poi, piano, piano, qualche riconoscimento per le pubblicazioni sulle riviste specializzate, qualche incarico di fiducia, un posto sicuro. Il matrimonio era stato il segno del raggiunto equilibrio; non avevano avuto figli, lui aveva preso il posto del suo professore ed ora dirigeva la cattedra di Fisica Teorica della facoltà. Dirigere era tuttavia una parola grossa, visto che aveva alle sue dipendenze solo il suo ex giovane e promettente allievo, Olsen e, come unico simbolo visibile di potere, una segretaria con un ufficio tutto per sé, la signorina Mercedes.

    Il prof. Birgham era un ometto magro, la testa lucida di una calvizie che gli lasciava una corona di capelli, neri e ancora folti, a sovrastare una faccia ossuta, da topo. Si ostinava a portare un paio di occhiali con la cerchiatura scura, assolutamente demodé, e la sua figura, quasi sparuta, lo faceva spesso oggetto di prese in giro da parte delle matricole.

    Appena si frequentavano le sue lezione, però, si capiva che razza di personaggio fosse, quali le competenze, enormi, e quali le capacità didattiche, innate certamente, che in un fisico così nervoso e dal profilo così scontroso non ci si sarebbe aspettati di trovare.

    La sua bravura di docente e, via, via che passavano gli anni, la sua notorietà nei ristretti ambiti universitari, ne aveva fatto una discreta risorsa per l’Università stessa, che ormai pubblicizzava, anche su Internet, i corsi tenuti dal celebre fisico prof. Birgham; nei Consigli di Facoltà ogni tanto qualcuno, malignamente, faceva circolare la voce che la Regina lo avrebbe fatto baronetto, ma lui sorrideva, increspando appena le labbra, e faceva spallucce.

    Per quanto il prof. Birghan fosse taciturno e quasi scontroso, il suo fidato collaboratore, il rossiccio Olsen, era estroverso e ciarliero, curioso di quello che succedeva in facoltà (era la fonte principale di gossip per Mercedes e per il Professore) e di quanto si sviluppava nell’ambiente scientifico internazionale.

    Questa sua vivacità, forse per contrasto, lo aveva reso simpatico al Professore, che non aveva certo trascurato, quando si era trattato di decidere chi dovesse diventare suo ‘assistente ufficioso’, le capacità analitiche e le solidissime competenze che Olsen aveva dimostrato in quegli anni di studio e particolarmente durante la preparazione della tesi, di cui Birgham era stato il relatore principale.

    Olsen lavorava esclusivamente su ambiti di ricerca strettamente concordati con Birghan, ma la sua naturale curiosità gli faceva deviare dal cammino tracciato per disperdersi in mille rivoli di possibili nuovi campi. Era Birgham che, attento a questi suoi improvvisi cambiamenti di rotta, lo riportava sulla via maestra, stupendosi spesso della brillantezza con cui il giovane riusciva a sintetizzare ipotesi di nuovi, affascinanti, percorsi di studio. Era certo che, passati ancora pochi anni di tirocinio, avrebbe potuto aspirare ad una bella e remunerativa carriera in una qualche università americana.

    C’erano spesso lunghe chiacchierate tra i due, il prof. Birgham si accendeva la pipa quasi a dare il segnale che si iniziava uno scontro tra cervelli al massimo livello; Olsen passeggiava avanti e indietro, le mani in tasca, i capelli, un po’ troppo lunghi, in pieno disordine. Mercedes qualche volta era entrata, in silenzio,per cercare di capire cosa stava succedendo. Il professore, immancabilmente seduto dietro la sua scrivania, la tazza di tea che gli aveva portato, piena e ormai quasi fredda, Olsen che invece, bevuta avidamente la sua rischiando quasi sempre di scottarsi, ragionava animatamente, andando avanti e indietro, a grandi passi, accanto alla lavagna piena di formule che ogni tanto cancellava per scriverne di nuove. Talvolta erano intervenuti alcuni dei colleghi più brillanti ma poi tutti si erano accorti che, nella discussione, c’era qualcosa di personale, quasi una sfida, tra il professore ed il suo allievo, o, forse, quasi una continua serie di esami a cui il giovane era sottoposto e che, visto il suo spirito irruento, debordavano in percorsi mai battuti dall’analisi teorica.

    Qualche volta il professore sorrideva, sbuffando il suo fumo, quando Olsen socchiudeva qualche porta della conoscenza mai aperta, e cercava di farlo proseguire in quella direzione, senza darne il segno, si badi, ché quello avrebbe preso subito una via diversa.

    Una sera Birgham decise che i tempi erano maturi; lasciò, con studiata negligenza, un pacco di appunti, pieni della sua scrittura microscopica e angolosa, su un angolo della sua scrivania. Per qualche giorno sarebbe andato, con la moglie, a Bath, per una breve vacanza salutista, e quel lasso di tempo sarebbe stato sufficiente per Olsen,aveva calcolato.

    Le giornate a Bath furono tranquille, intellettualmente quasi noiose, anche se c’era un po’ di preoccupazione su quello che poteva essere successo nel suo ufficio.

    Quando, il lunedì successivo, Birgham entrò in ufficio, Olsen, cosa insolita per lui, era già arrivato. “Molto bene” pensò Birgham e, dopo averlo salutato come al solito, si mise a controllare la posta elettronica che gli si era accumulata nei giorni di assenza, senza prestare la minima attenzione al giovane che, nervosamente, aveva cominciato a muoversi per tutta la stanza, quel vasto studio-biblioteca di cui occupava, con la sua scrivania, appena un angolo.

    “Professore..”

    “Che c’è, Olsen, ti vedo più nervoso del solito, stamani. Un problema con qualche donna?”

    “Professore, sta scherzando, è una cosa seria…”

    “Cosa è una cosa seria?”

    “I suoi appunti professore!”

    “I miei appunti? Cos’è successo, Mercedes ha perso qualche pagina?”

    “Ma no, che dice, insomma, li ho guardati”

    “E ti sembra una bella cosa? Ti avevo dato il permesso?” disse Birgham, arcigno.

    “No, veramente, no, ma erano lì sopra…”

    “Capisco, lo so che sei un ragazzo indisciplinato, facciamo finta di nulla. Tu non li hai letti e io non mi devo preoccupare. E’ tutto a posto.”

    “Professore, ma io quegli appunti li ho letti!”

    “Allora insisti! Vuoi veramente farmi arrabbiare!!”

    “Li ho letti e li ho capiti.” Olsen, serissimo, guardò dritto negli occhi Birgham.

    “Bene, allora tutto quello che abbiamo fatto per farti studiare non è stato inutile” lo rimbeccò, ironico Birgham.

    “Sa cosa voglio dire, professore. Lì c’è roba che neanche Hawking…”

    “Ma non bestemmiare e lascia stare il Lucasian Professor, per favore!”

    “Uffa, accidenti, professore” sbuffò, era paonazzo dallo sforzo di trattenersi dall’urlare “ma lei ha trovato l’unificazione dei campi! La smetta di prendermi in giro, crede che non l’abbia capito?”

    “Non so cosa tu abbia capito, ma stamani deve esserti successo qualcosa di particolare, sei molto più agitato del solito.”

    Olsen non rispose, lo fissò negli occhi, immobile. Birgham fece altrettanto, con una faccia serissima. Poi nei suoi occhi passò un bagliore, le labbra si incresparono in un timido sorriso.

    “Allora è vero, lo ammette, ce l’ha fatta, ce l’ha fatta!!!” e senza badare alle forme, gli si avventò addosso, lo strappò con facilità dalla poltroncina della scrivania, lo prese tra le braccia e cominciò a farlo ballonzolare, andandosene in giro per la stanza e gridando suoni sconnessi.

    Mercedes si precipitò dentro allarmata. “Ma che succede?” urlò anche lei alla vista di uno spettacolo tanto insolito. In breve la stanza fu piena di colleghi, di segretarie, di studenti; anche il vice rettore, disturbato da quel gran caos nel suo lontano ufficio, aveva mandato la sua assistente a vedere se per caso qualcuno fosse completamente impazzito lì, nella sua Università.

    Ci vollero pochi minuti, la notizia fece il giro della facoltà ma, per fortuna, le cose ripresero velocemente il loro andamento usuale. Bisognava innanzi tutto verificare la documentazione, fu formato un referee dei più qualificati docenti della facoltà, Mercedes si incaricò di mettere in formato elettronico gli appunti, e cominciò un lungo periodo di routine per tutti.

    Passarono alcuni mesi, e non ci furono dubbi. La ricerca di Birgham era LA soluzione. Fu pubblicata sul Quarterly Journal of Theoretical Phisics, suscitando uno scalpore enorme. “Questa volta è il Nobel, professore” gli augurò Olsen una mattina, portandogli una copia fresca di stampa del Journal; ne aveva un fascio in mano che cominciò a distribuire ai vari colleghi che trovava nel corridoio o nei loro uffici.

    Fu poi un terremoto mediatico per il professor Birgham; Olsen si era lanciato come press-agent del suo mecenate e allora furono giornalisti di importanti riviste internazionali a richiedere articoli; furono riviste alla moda a sollecitargli “articoli divulgativi” per i propri lettori; diverse troupe televisive se lo contesero come ospite di una serata speciale.

    Nonostante tutto, Birgham non sembrava per niente frastornato; passava all’articolo tecnicissimo, che solo poche persone al mondo erano in grado di capire, alla chiacchierata informale in uno studio televisivo per una diretta nella fascia di maggiore ascolto. La sua vita non sembrava cambiata, come se tutte le novità che stavano accadendo le avesse previste e, quasi, quasi, pianificate.

    La sera della sua intervista per la più grande rete televisiva americana, dopo cena, gli venne voglia di fumare, un vizio che, anche se assai di rado, gli piaceva praticare. Ciabattò indolente verso la porta dello studio e si chiuse pian piano la porta alle spalle, lasciando la moglie a sparecchiare la tavola, con la TV, ormai a tutto volume, che trasmetteva uno dei suoi interventi.

    Dal secondo cassetto della scrivania prese la sacca con il tabacco; l’odore, aromatico, gli fece pensare al lavoro: i suoi notes e la sua carta, che riempivano gli altri cassetti, avevano lo stesso profumo dolciastro.

    Da uno dei contenitori nella libreria scelse poi una pipa e si mise in tasca una scatola di fiammiferi; assaporava già i momenti di tranquillità che avrebbe goduto di lì a poco.

    Si diresse con calma, verso la porta-finestra che, conoscendo la s truttura della casa, si sarebbe detto si aprisse, senza scopo, sulla rimessa. Entrando di giorno nello studio, addossata com’era allo spigolo di uno scaffale, la porta si notava poco e dava l’impressione di essere inutilizzata da tempo e che al di là ci fosse, appunto, un muro.

    Aprì la porta con decisione e uscì, invece, su una veranda; un’aria fredda e senza vento lo avvolse, facendolo rabbrividire e desiderare ancora di più il fornello acceso di una pipa.

    Si sedette su una poltroncina, le sue cose da fumo sulle ginocchia, e si dovette togliere gli occhiali, appannati, per strofinarli contro i pantaloni. Quando li rimise si era già un po’ abituato al buio: lì fuori lampeggiavano le stelle, qualche pianeta e sparse macchie ovattate di galassie.

    Cominciò a caricare la pipa. “Jay, ci sei?” disse, a voce poco più alta del normale, come quando si vuol attirare l’attenzione di un vicino un po’ distratto.

    “Certo che ci sono” rispose subito una voce, più grave di quella del professore “sono sempre dappertutto, lo sai” e ghignò.

    “Beh, hai visto? La faccenda è andata bene!”

    “Sì, tutto è andato alla perfezione”

    “Abbiamo scelto il momento giusto, da decenni andavano avanti con questa teoria generale delle forze, senza riuscire a sbloccarsi, e senza la nostra spinta….”

    “Con Olsen è stato proprio un gioco da ragazzi, ha capito quasi subito e poi ha messo su tutta la fanfara dei giornali e della TV…”

    “Già, Birgy, sei una star adesso: giornali, TV… guadagnerai un sacco di soldi” disse Jay e ghignò di nuovo.

    “E’ proprio così, ho risolto tutti i problemi della famiglia”, fece una pausa, sbuffando verso il cielo il fumo della sua pipa, “Questo è un mondo molto strano…”. “Mah…” concluse poi, meditativo, senza voler significare nulla di particolare, troppo attento a che la pipa tirasse bene e la fumata durasse a lungo.

    “Ora che gli ho dato la Teoria unificata dei campi, tra qualche anno ne vedremo delle belle, Jay. Chissà che fine faranno; forse pensano di diventare immortali!”

    “Sei un po’ troppo spiritoso, per essere un professore” ribatté, sarcastico, Jay.

    “E poi” continuò “di che ti preoccupi? Se la cosa non andrà bene e faranno saltare tutto in aria, faremo come abbiamo fatto le altre volte, no? Creeremo un altro Universo”.

    Il professore rise, si mandò il fumo a traverso, tossì, rise ancora d’un riso acuto, quasi nervoso. Jahvé si unì a lui, con la sua risata bassa e tonante. Le stelle, le galassie, i mondi, lassù, sembrarono tremare tutti.

martedì 19 maggio 2009

La rossa e la gialla

Stanno tutti dormendo sull'autobus. La settimana è stata impegnativa un po' per tutti e il venerdì, pieno di traffico e di camion, sta lentamente riportando tutti a casa per il meritato week-end.
In tutto questo, però, c'è la rossa e la gialla che non dormono e anzi parlano. Parlano sempre, in continuazione. Di tutto.
La rossa dovrebbe avere circa 60 anni. Capelli rossi sempre in piega perfetta, come uscita un minuto prima dal parrucchiere. Sotto questa capigliatura, però, si scoprono rughe e decadenze proprie della sua età. Ancora sotto, l'eleganza continua con vesti di raso luccicante e brillantini.
L'altra, la gialla, ha un'età indefinita. Potrebbe avere l'irruenza tipica della gioventù. Oppure l'incazzatura col mondo tipica di un'età molto avanzata. Le primavere non hanno però lasciato ricordi sul suo volto. Cappellino sempre calcato sulla testa, coronata di biondi capelli lunghi. Il suo vestire ricorda una cinquantenne vestita da quindicenne.
La prima fila dell'autobus è già decisa: la rossa dietro l'autista nel posto centrale, la gialla dall'altra parte del corridoio. Se qualcuno occupa uno dei posti assegnati, fin dalle ultime file si vedono scintille di rabbia provenire dagli occhi della usurpata.
Conoscono naturalmente tutti gli autisti per nome (ma forse l'azienda assume soltanto dopo aver sentito il loro parere, chissà). Di certo è che l'azienda di trasporti riceve molte lamentele dalla gialla, mai contenta. Pullman sporchi, polvere, aria condizionata troppo alta, ritardo di 2 minuti, cinture di sicurezza alle poltroncine. Tutte richieste che si alternano giornalmente.
Oggi, ad esempio, non era la giornata delle cinture, né dell'aria condizionata, così hanno viaggiato con il ventilatore al massimo, benché la giornata non fosse eccessivamente calda, e nella totale assenza di sicurezza, ma con le grida per il ritardo accumulato nell'aspettare l'arrivo di un collega per ricevere il telepass.
Pochi giorni fa, invece, i passeggeri hanno viaggiato all'interno di un altoforno, con in sottofondo la sua tosse, dovuta alla polvere contenuta nei filtri del ventilatore dell'aria condizionata.
La rossa a volte cerca di calmarla, forse la saggezza dei vecchi, rimasta impigliata nelle rughe del volto, la aiutano a tenere a freno la gialla: “Zitta, zitta! Tanto è inutile, vedi che abbiamo perso solo 2 minuti?” “No, voglio dirglielo, abbiamo aspettato qui. E lo sanno che dobbiamo fare quel pezzo di autostrada... quindi il telepass lo devono lasciare sul pullman!” “Zitta!”.

giovedì 14 maggio 2009

Respingimenti

Stavo camminando, piano, piano, lungo la via principale che, a quell’ora del mattino era già calda, complice il sole che, da alcune ore, la inondava senza alcuno schermo.

Affaticato dalla lieve salita e dal lungo tragitto che avevo percorso, mi tenevo sulla destra per approfittare di una fetta d’ombra che veniva dai palazzi, vecchi e alti, che si susseguono in questa parte centrale della città.

La borsa, in cui erano stivati il computer, un grosso blocco per appunti e varie altre cianfrusaglie informatiche e non, mi rendeva ancora più lento; l’inutilità dell’incontro che avevo avuto con un cliente e la quasi certezza che ne sarebbero seguiti altri, ugualmente inconcludenti, mi infastidiva un po’ ma non tanto da irritarmi; appena conosciuto personalmente il mio interlocutore, qualche giorno prima, avevo subito capito che mi avrebbe fatto solo perdere tempo, ma la rilevanza della sua azienda ed i lunghi rapporti economici con la mia mi costringevano ad una serie di incontri di cui, come dicevo, avevo subito intuito la vacuità.

Ma pensavo a tutt’altro, mentre camminavo, non certo al lavoro: buttavo occhiate incuriosite su quanti procedevano in senso opposto al mio e su chi, sorpassandomi con facilità, andava nella mia stessa direzione.

Ogni tanto un portone aperto su un androne scuro portava in strada una felice zona di fresco insieme a odori muffosi e stantii; qualche volta si intravedeva, oltre l’androne, la campagna lontana e allora c’era anche una bava di vento che mi lambiva, dandomi qualche secondo di sollievo.

A un tratto, là in fondo, sulla destra ecco la sagoma di qualcuno seduto su un gradino. La solita zingara con un bambino, pensai, ma poi mi accorsi che era una persona sola e intuii che era un uomo.

Poco prima di una via traversa lunga poche decine di metri che, sulla sinistra, porta a un’ampia piazza alberata, con aiuole e panchine, sulla destra c’è un palazzo di un bugnato in cemento, dipinto di grigio come la pietra serena della strada, che precede un altro palazzo, d’un giallo stizzoso e con un corpo leggermente rientrato rispetto agli altri, che invece di ospitare vetrine di banche o bar, apre un grande e unico portone. Sullo scalino che fa da soglia a questo portone, stranamente spalancato verso l’interno, stava seduto quello che, avvicinandomi me ne accorsi, era un vecchio; il gradino era quello d’ingresso di una chiesa.

C'è infatti in quel punto, quasi un garage a fronte strada, uno stanzone poco illuminato che solo quando ci passi davanti capisci che è una chiesa. Dalla via si vedono pochi ceri accesi e, spesso, un cartellone appoggiato a delle sedie che dice ai passanti, curiosi o indifferenti, quando c’è una messa o quando è possibile entrare a confessarsi.

Per un mendicante, pensai, è una posizione strategica anche se, al giorno d’oggi, chi vuoi che ti dia un centesimo! Ma il vecchio non stava chiedendo affatto l’elemosina: stava trafficando con qualcosa. In una mano aveva una bottiglietta d’acqua, con l’altra frugava in una sorta di tascapane, una volta sicuramente nero e adesso grigio e scolorito, alla ricerca di qualcosa. Ancora qualche passo avanti e distinsi la giacca verde, i pantaloni marroni, le scarpe marroni, grosse. Nelle mani aveva qualcosa e cercava di aprire la bottiglia.

Per un attimo fui eclissato da un corpo nero: dalla mia sinistra fui superato da un pretone, in tonaca, abbastanza giovane e robusto; un tipo moro, i capelli si sarebbero detti blu scuro più che neri e anche la pelle delle guance, ben rasate, aveva un colorito bluastro; il passo era deciso, le braccia dondolavano seguendo lo slancio del corpo.

Il vecchio si era versato un po’ d’acqua nel cavo della mano e si bagnava, con attenzione e parsimonia, le guance; accanto a sé, sul gradino della chiesa, aveva messo le poche cose che aveva cercato nello zainetto: un pezzo di sapone, un pennello e un rasoio di sicurezza.

“Eh, no, non è questo il posto!” gli fece il prete, a voce alta, minaccioso, parandoglisi davanti. Io ero ormai a pochi passi e vedevo la scena da vicino. “Devi andartene da qui”. Il vecchio riprese con una mano le cose posate sul gradino, con l’altra la bottiglia e lo zainetto e si alzò, a fatica; incrociò il suo sguardo con il mio: aveva gli occhi chiari e umidi. Non disse nulla e cominciò a trascinare i piedi con le scarpe grosse lontano da quell’angolo che non era più tranquillo per lui.

Mentre passavo proprio di fronte alla chiesa, vidi il prete sgonnellare dentro lo stanzone e lo sentii bofonchiare “Ci mancherebbe…”; ancora pochi passi e si sarebbe inginocchiato di fronte al Santissimo.