Di nuovo la sveglia, non sembrava neanche di aver dormito. Antonio si alzò, i jeans e la camicia, i libri. Alla fine il giorno dell'esame era arrivato. Arrivato in facoltà, andò subito a vedere nella bacheca di ateneo in quale aula si tenesse l'esame. “Ciao Alberto, anche tu l'esame?” “No, sono solo venuto a vedere, non ho ancora studiato, lo preparo per luglio e poi via al mare.” “Dove vai quest'anno?” “Ho prenotato in Grecia, ho una cugina là” “Ah, beato te... Si, sono io.” L'assistente aveva cominciato a fare l'appello. Antonio era il quinto. “Alberto, hai fatto colazione? Ti va un caffè? Se non mi sveglio...” “No, grazie Antonio, ma ho già fatto colazione a casa.”
Il professore cominciò ad interrogare, due 18, un bocciato, un 30 e infine Antonio.
Erano le 11.40 quando il libretto di Antonio rimase chiuso per l'ennesima volta. Quel Riccardi non voleva proprio metterla quella firma sul suo libretto. Antonio non aveva neanche voglia di mangiare e andò a sdraiarsi sul letto, la sera avrebbe di nuovo corso per tutta la città col suo motorino e il suo carico di margherite e birre.
“Ieri sera siamo andati a prendere quel tale!” “Chi? Di chi parli?” “Di quel tizio strano, quello che dice che la terra gira intorno al sole!” “Ah, quello dei Galilei...” “Si, si proprio quello. Abbiamo sfondato la porta e siamo entrati, era sul tetto con quel maledetto cannocchiale” “Ha provato a scappare?” “No, e dove volevi che andasse? Insomma, l'abbiamo preso, qualcuno gli ha anche sputato. In basso c'era anche uno degli scagnozzi del vescovo...” “L'avete portato al carcere?” “Certo, l'abbiamo portato in carcere e ora l'aspetta un bel processo e non credo che la farà franca, il vescovo è incazzato nero.” Finirono il vino e tornarono alle proprie vite.
Leggi anche la prima puntata di "Antonio e Antonio": Terra Conquistata
martedì 26 maggio 2009
lunedì 25 maggio 2009
La Teoria Generale
Il professor Birgham era arrivato a superare la sessantina percorrendo la stessa strada di tutti i suoi colleghi: anni di subordinazione al precedente titolare della cattedra, studio accanito e tante, tante ricerche, tanti incarichi, gravosi e non di prestigio, da sopportare per andare avanti; poi, piano, piano, qualche riconoscimento per le pubblicazioni sulle riviste specializzate, qualche incarico di fiducia, un posto sicuro. Il matrimonio era stato il segno del raggiunto equilibrio; non avevano avuto figli, lui aveva preso il posto del suo professore ed ora dirigeva la cattedra di Fisica Teorica della facoltà. Dirigere era tuttavia una parola grossa, visto che aveva alle sue dipendenze solo il suo ex giovane e promettente allievo, Olsen e, come unico simbolo visibile di potere, una segretaria con un ufficio tutto per sé, la signorina Mercedes.
Il prof. Birgham era un ometto magro, la testa lucida di una calvizie che gli lasciava una corona di capelli, neri e ancora folti, a sovrastare una faccia ossuta, da topo. Si ostinava a portare un paio di occhiali con la cerchiatura scura, assolutamente demodé, e la sua figura, quasi sparuta, lo faceva spesso oggetto di prese in giro da parte delle matricole.
Appena si frequentavano le sue lezione, però, si capiva che razza di personaggio fosse, quali le competenze, enormi, e quali le capacità didattiche, innate certamente, che in un fisico così nervoso e dal profilo così scontroso non ci si sarebbe aspettati di trovare.
La sua bravura di docente e, via, via che passavano gli anni, la sua notorietà nei ristretti ambiti universitari, ne aveva fatto una discreta risorsa per l’Università stessa, che ormai pubblicizzava, anche su Internet, i corsi tenuti dal celebre fisico prof. Birgham; nei Consigli di Facoltà ogni tanto qualcuno, malignamente, faceva circolare la voce che la Regina lo avrebbe fatto baronetto, ma lui sorrideva, increspando appena le labbra, e faceva spallucce.
Per quanto il prof. Birghan fosse taciturno e quasi scontroso, il suo fidato collaboratore, il rossiccio Olsen, era estroverso e ciarliero, curioso di quello che succedeva in facoltà (era la fonte principale di gossip per Mercedes e per il Professore) e di quanto si sviluppava nell’ambiente scientifico internazionale.
Questa sua vivacità, forse per contrasto, lo aveva reso simpatico al Professore, che non aveva certo trascurato, quando si era trattato di decidere chi dovesse diventare suo ‘assistente ufficioso’, le capacità analitiche e le solidissime competenze che Olsen aveva dimostrato in quegli anni di studio e particolarmente durante la preparazione della tesi, di cui Birgham era stato il relatore principale.
Olsen lavorava esclusivamente su ambiti di ricerca strettamente concordati con Birghan, ma la sua naturale curiosità gli faceva deviare dal cammino tracciato per disperdersi in mille rivoli di possibili nuovi campi. Era Birgham che, attento a questi suoi improvvisi cambiamenti di rotta, lo riportava sulla via maestra, stupendosi spesso della brillantezza con cui il giovane riusciva a sintetizzare ipotesi di nuovi, affascinanti, percorsi di studio. Era certo che, passati ancora pochi anni di tirocinio, avrebbe potuto aspirare ad una bella e remunerativa carriera in una qualche università americana.
C’erano spesso lunghe chiacchierate tra i due, il prof. Birgham si accendeva la pipa quasi a dare il segnale che si iniziava uno scontro tra cervelli al massimo livello; Olsen passeggiava avanti e indietro, le mani in tasca, i capelli, un po’ troppo lunghi, in pieno disordine. Mercedes qualche volta era entrata, in silenzio,per cercare di capire cosa stava succedendo. Il professore, immancabilmente seduto dietro la sua scrivania, la tazza di tea che gli aveva portato, piena e ormai quasi fredda, Olsen che invece, bevuta avidamente la sua rischiando quasi sempre di scottarsi, ragionava animatamente, andando avanti e indietro, a grandi passi, accanto alla lavagna piena di formule che ogni tanto cancellava per scriverne di nuove. Talvolta erano intervenuti alcuni dei colleghi più brillanti ma poi tutti si erano accorti che, nella discussione, c’era qualcosa di personale, quasi una sfida, tra il professore ed il suo allievo, o, forse, quasi una continua serie di esami a cui il giovane era sottoposto e che, visto il suo spirito irruento, debordavano in percorsi mai battuti dall’analisi teorica.
Qualche volta il professore sorrideva, sbuffando il suo fumo, quando Olsen socchiudeva qualche porta della conoscenza mai aperta, e cercava di farlo proseguire in quella direzione, senza darne il segno, si badi, ché quello avrebbe preso subito una via diversa.
Una sera Birgham decise che i tempi erano maturi; lasciò, con studiata negligenza, un pacco di appunti, pieni della sua scrittura microscopica e angolosa, su un angolo della sua scrivania. Per qualche giorno sarebbe andato, con la moglie, a Bath, per una breve vacanza salutista, e quel lasso di tempo sarebbe stato sufficiente per Olsen,aveva calcolato.
Le giornate a Bath furono tranquille, intellettualmente quasi noiose, anche se c’era un po’ di preoccupazione su quello che poteva essere successo nel suo ufficio.
Quando, il lunedì successivo, Birgham entrò in ufficio, Olsen, cosa insolita per lui, era già arrivato. “Molto bene” pensò Birgham e, dopo averlo salutato come al solito, si mise a controllare la posta elettronica che gli si era accumulata nei giorni di assenza, senza prestare la minima attenzione al giovane che, nervosamente, aveva cominciato a muoversi per tutta la stanza, quel vasto studio-biblioteca di cui occupava, con la sua scrivania, appena un angolo.
“Professore..”
“Che c’è, Olsen, ti vedo più nervoso del solito, stamani. Un problema con qualche donna?”
“Professore, sta scherzando, è una cosa seria…”
“Cosa è una cosa seria?”
“I suoi appunti professore!”
“I miei appunti? Cos’è successo, Mercedes ha perso qualche pagina?”
“Ma no, che dice, insomma, li ho guardati”
“E ti sembra una bella cosa? Ti avevo dato il permesso?” disse Birgham, arcigno.
“No, veramente, no, ma erano lì sopra…”
“Capisco, lo so che sei un ragazzo indisciplinato, facciamo finta di nulla. Tu non li hai letti e io non mi devo preoccupare. E’ tutto a posto.”
“Professore, ma io quegli appunti li ho letti!”
“Allora insisti! Vuoi veramente farmi arrabbiare!!”
“Li ho letti e li ho capiti.” Olsen, serissimo, guardò dritto negli occhi Birgham.
“Bene, allora tutto quello che abbiamo fatto per farti studiare non è stato inutile” lo rimbeccò, ironico Birgham.
“Sa cosa voglio dire, professore. Lì c’è roba che neanche Hawking…”
“Ma non bestemmiare e lascia stare il Lucasian Professor, per favore!”
“Uffa, accidenti, professore” sbuffò, era paonazzo dallo sforzo di trattenersi dall’urlare “ma lei ha trovato l’unificazione dei campi! La smetta di prendermi in giro, crede che non l’abbia capito?”
“Non so cosa tu abbia capito, ma stamani deve esserti successo qualcosa di particolare, sei molto più agitato del solito.”
Olsen non rispose, lo fissò negli occhi, immobile. Birgham fece altrettanto, con una faccia serissima. Poi nei suoi occhi passò un bagliore, le labbra si incresparono in un timido sorriso.
“Allora è vero, lo ammette, ce l’ha fatta, ce l’ha fatta!!!” e senza badare alle forme, gli si avventò addosso, lo strappò con facilità dalla poltroncina della scrivania, lo prese tra le braccia e cominciò a farlo ballonzolare, andandosene in giro per la stanza e gridando suoni sconnessi.
Mercedes si precipitò dentro allarmata. “Ma che succede?” urlò anche lei alla vista di uno spettacolo tanto insolito. In breve la stanza fu piena di colleghi, di segretarie, di studenti; anche il vice rettore, disturbato da quel gran caos nel suo lontano ufficio, aveva mandato la sua assistente a vedere se per caso qualcuno fosse completamente impazzito lì, nella sua Università.
Ci vollero pochi minuti, la notizia fece il giro della facoltà ma, per fortuna, le cose ripresero velocemente il loro andamento usuale. Bisognava innanzi tutto verificare la documentazione, fu formato un referee dei più qualificati docenti della facoltà, Mercedes si incaricò di mettere in formato elettronico gli appunti, e cominciò un lungo periodo di routine per tutti.
Passarono alcuni mesi, e non ci furono dubbi. La ricerca di Birgham era LA soluzione. Fu pubblicata sul Quarterly Journal of Theoretical Phisics, suscitando uno scalpore enorme. “Questa volta è il Nobel, professore” gli augurò Olsen una mattina, portandogli una copia fresca di stampa del Journal; ne aveva un fascio in mano che cominciò a distribuire ai vari colleghi che trovava nel corridoio o nei loro uffici.
Fu poi un terremoto mediatico per il professor Birgham; Olsen si era lanciato come press-agent del suo mecenate e allora furono giornalisti di importanti riviste internazionali a richiedere articoli; furono riviste alla moda a sollecitargli “articoli divulgativi” per i propri lettori; diverse troupe televisive se lo contesero come ospite di una serata speciale.
Nonostante tutto, Birgham non sembrava per niente frastornato; passava all’articolo tecnicissimo, che solo poche persone al mondo erano in grado di capire, alla chiacchierata informale in uno studio televisivo per una diretta nella fascia di maggiore ascolto. La sua vita non sembrava cambiata, come se tutte le novità che stavano accadendo le avesse previste e, quasi, quasi, pianificate.
La sera della sua intervista per la più grande rete televisiva americana, dopo cena, gli venne voglia di fumare, un vizio che, anche se assai di rado, gli piaceva praticare. Ciabattò indolente verso la porta dello studio e si chiuse pian piano la porta alle spalle, lasciando la moglie a sparecchiare la tavola, con la TV, ormai a tutto volume, che trasmetteva uno dei suoi interventi.
Dal secondo cassetto della scrivania prese la sacca con il tabacco; l’odore, aromatico, gli fece pensare al lavoro: i suoi notes e la sua carta, che riempivano gli altri cassetti, avevano lo stesso profumo dolciastro.
Da uno dei contenitori nella libreria scelse poi una pipa e si mise in tasca una scatola di fiammiferi; assaporava già i momenti di tranquillità che avrebbe goduto di lì a poco.
Si diresse con calma, verso la porta-finestra che, conoscendo la s truttura della casa, si sarebbe detto si aprisse, senza scopo, sulla rimessa. Entrando di giorno nello studio, addossata com’era allo spigolo di uno scaffale, la porta si notava poco e dava l’impressione di essere inutilizzata da tempo e che al di là ci fosse, appunto, un muro.
Aprì la porta con decisione e uscì, invece, su una veranda; un’aria fredda e senza vento lo avvolse, facendolo rabbrividire e desiderare ancora di più il fornello acceso di una pipa.
Si sedette su una poltroncina, le sue cose da fumo sulle ginocchia, e si dovette togliere gli occhiali, appannati, per strofinarli contro i pantaloni. Quando li rimise si era già un po’ abituato al buio: lì fuori lampeggiavano le stelle, qualche pianeta e sparse macchie ovattate di galassie.
Cominciò a caricare la pipa. “Jay, ci sei?” disse, a voce poco più alta del normale, come quando si vuol attirare l’attenzione di un vicino un po’ distratto.
“Certo che ci sono” rispose subito una voce, più grave di quella del professore “sono sempre dappertutto, lo sai” e ghignò.
“Beh, hai visto? La faccenda è andata bene!”
“Sì, tutto è andato alla perfezione”
“Abbiamo scelto il momento giusto, da decenni andavano avanti con questa teoria generale delle forze, senza riuscire a sbloccarsi, e senza la nostra spinta….”
“Con Olsen è stato proprio un gioco da ragazzi, ha capito quasi subito e poi ha messo su tutta la fanfara dei giornali e della TV…”
“Già, Birgy, sei una star adesso: giornali, TV… guadagnerai un sacco di soldi” disse Jay e ghignò di nuovo.
“E’ proprio così, ho risolto tutti i problemi della famiglia”, fece una pausa, sbuffando verso il cielo il fumo della sua pipa, “Questo è un mondo molto strano…”. “Mah…” concluse poi, meditativo, senza voler significare nulla di particolare, troppo attento a che la pipa tirasse bene e la fumata durasse a lungo.
“Ora che gli ho dato la Teoria unificata dei campi, tra qualche anno ne vedremo delle belle, Jay. Chissà che fine faranno; forse pensano di diventare immortali!”
“Sei un po’ troppo spiritoso, per essere un professore” ribatté, sarcastico, Jay.
“E poi” continuò “di che ti preoccupi? Se la cosa non andrà bene e faranno saltare tutto in aria, faremo come abbiamo fatto le altre volte, no? Creeremo un altro Universo”.
Il professore rise, si mandò il fumo a traverso, tossì, rise ancora d’un riso acuto, quasi nervoso. Jahvé si unì a lui, con la sua risata bassa e tonante. Le stelle, le galassie, i mondi, lassù, sembrarono tremare tutti.
Il prof. Birgham era un ometto magro, la testa lucida di una calvizie che gli lasciava una corona di capelli, neri e ancora folti, a sovrastare una faccia ossuta, da topo. Si ostinava a portare un paio di occhiali con la cerchiatura scura, assolutamente demodé, e la sua figura, quasi sparuta, lo faceva spesso oggetto di prese in giro da parte delle matricole.
Appena si frequentavano le sue lezione, però, si capiva che razza di personaggio fosse, quali le competenze, enormi, e quali le capacità didattiche, innate certamente, che in un fisico così nervoso e dal profilo così scontroso non ci si sarebbe aspettati di trovare.
La sua bravura di docente e, via, via che passavano gli anni, la sua notorietà nei ristretti ambiti universitari, ne aveva fatto una discreta risorsa per l’Università stessa, che ormai pubblicizzava, anche su Internet, i corsi tenuti dal celebre fisico prof. Birgham; nei Consigli di Facoltà ogni tanto qualcuno, malignamente, faceva circolare la voce che la Regina lo avrebbe fatto baronetto, ma lui sorrideva, increspando appena le labbra, e faceva spallucce.
Per quanto il prof. Birghan fosse taciturno e quasi scontroso, il suo fidato collaboratore, il rossiccio Olsen, era estroverso e ciarliero, curioso di quello che succedeva in facoltà (era la fonte principale di gossip per Mercedes e per il Professore) e di quanto si sviluppava nell’ambiente scientifico internazionale.
Questa sua vivacità, forse per contrasto, lo aveva reso simpatico al Professore, che non aveva certo trascurato, quando si era trattato di decidere chi dovesse diventare suo ‘assistente ufficioso’, le capacità analitiche e le solidissime competenze che Olsen aveva dimostrato in quegli anni di studio e particolarmente durante la preparazione della tesi, di cui Birgham era stato il relatore principale.
Olsen lavorava esclusivamente su ambiti di ricerca strettamente concordati con Birghan, ma la sua naturale curiosità gli faceva deviare dal cammino tracciato per disperdersi in mille rivoli di possibili nuovi campi. Era Birgham che, attento a questi suoi improvvisi cambiamenti di rotta, lo riportava sulla via maestra, stupendosi spesso della brillantezza con cui il giovane riusciva a sintetizzare ipotesi di nuovi, affascinanti, percorsi di studio. Era certo che, passati ancora pochi anni di tirocinio, avrebbe potuto aspirare ad una bella e remunerativa carriera in una qualche università americana.
C’erano spesso lunghe chiacchierate tra i due, il prof. Birgham si accendeva la pipa quasi a dare il segnale che si iniziava uno scontro tra cervelli al massimo livello; Olsen passeggiava avanti e indietro, le mani in tasca, i capelli, un po’ troppo lunghi, in pieno disordine. Mercedes qualche volta era entrata, in silenzio,per cercare di capire cosa stava succedendo. Il professore, immancabilmente seduto dietro la sua scrivania, la tazza di tea che gli aveva portato, piena e ormai quasi fredda, Olsen che invece, bevuta avidamente la sua rischiando quasi sempre di scottarsi, ragionava animatamente, andando avanti e indietro, a grandi passi, accanto alla lavagna piena di formule che ogni tanto cancellava per scriverne di nuove. Talvolta erano intervenuti alcuni dei colleghi più brillanti ma poi tutti si erano accorti che, nella discussione, c’era qualcosa di personale, quasi una sfida, tra il professore ed il suo allievo, o, forse, quasi una continua serie di esami a cui il giovane era sottoposto e che, visto il suo spirito irruento, debordavano in percorsi mai battuti dall’analisi teorica.
Qualche volta il professore sorrideva, sbuffando il suo fumo, quando Olsen socchiudeva qualche porta della conoscenza mai aperta, e cercava di farlo proseguire in quella direzione, senza darne il segno, si badi, ché quello avrebbe preso subito una via diversa.
Una sera Birgham decise che i tempi erano maturi; lasciò, con studiata negligenza, un pacco di appunti, pieni della sua scrittura microscopica e angolosa, su un angolo della sua scrivania. Per qualche giorno sarebbe andato, con la moglie, a Bath, per una breve vacanza salutista, e quel lasso di tempo sarebbe stato sufficiente per Olsen,aveva calcolato.
Le giornate a Bath furono tranquille, intellettualmente quasi noiose, anche se c’era un po’ di preoccupazione su quello che poteva essere successo nel suo ufficio.
Quando, il lunedì successivo, Birgham entrò in ufficio, Olsen, cosa insolita per lui, era già arrivato. “Molto bene” pensò Birgham e, dopo averlo salutato come al solito, si mise a controllare la posta elettronica che gli si era accumulata nei giorni di assenza, senza prestare la minima attenzione al giovane che, nervosamente, aveva cominciato a muoversi per tutta la stanza, quel vasto studio-biblioteca di cui occupava, con la sua scrivania, appena un angolo.
“Professore..”
“Che c’è, Olsen, ti vedo più nervoso del solito, stamani. Un problema con qualche donna?”
“Professore, sta scherzando, è una cosa seria…”
“Cosa è una cosa seria?”
“I suoi appunti professore!”
“I miei appunti? Cos’è successo, Mercedes ha perso qualche pagina?”
“Ma no, che dice, insomma, li ho guardati”
“E ti sembra una bella cosa? Ti avevo dato il permesso?” disse Birgham, arcigno.
“No, veramente, no, ma erano lì sopra…”
“Capisco, lo so che sei un ragazzo indisciplinato, facciamo finta di nulla. Tu non li hai letti e io non mi devo preoccupare. E’ tutto a posto.”
“Professore, ma io quegli appunti li ho letti!”
“Allora insisti! Vuoi veramente farmi arrabbiare!!”
“Li ho letti e li ho capiti.” Olsen, serissimo, guardò dritto negli occhi Birgham.
“Bene, allora tutto quello che abbiamo fatto per farti studiare non è stato inutile” lo rimbeccò, ironico Birgham.
“Sa cosa voglio dire, professore. Lì c’è roba che neanche Hawking…”
“Ma non bestemmiare e lascia stare il Lucasian Professor, per favore!”
“Uffa, accidenti, professore” sbuffò, era paonazzo dallo sforzo di trattenersi dall’urlare “ma lei ha trovato l’unificazione dei campi! La smetta di prendermi in giro, crede che non l’abbia capito?”
“Non so cosa tu abbia capito, ma stamani deve esserti successo qualcosa di particolare, sei molto più agitato del solito.”
Olsen non rispose, lo fissò negli occhi, immobile. Birgham fece altrettanto, con una faccia serissima. Poi nei suoi occhi passò un bagliore, le labbra si incresparono in un timido sorriso.
“Allora è vero, lo ammette, ce l’ha fatta, ce l’ha fatta!!!” e senza badare alle forme, gli si avventò addosso, lo strappò con facilità dalla poltroncina della scrivania, lo prese tra le braccia e cominciò a farlo ballonzolare, andandosene in giro per la stanza e gridando suoni sconnessi.
Mercedes si precipitò dentro allarmata. “Ma che succede?” urlò anche lei alla vista di uno spettacolo tanto insolito. In breve la stanza fu piena di colleghi, di segretarie, di studenti; anche il vice rettore, disturbato da quel gran caos nel suo lontano ufficio, aveva mandato la sua assistente a vedere se per caso qualcuno fosse completamente impazzito lì, nella sua Università.
Ci vollero pochi minuti, la notizia fece il giro della facoltà ma, per fortuna, le cose ripresero velocemente il loro andamento usuale. Bisognava innanzi tutto verificare la documentazione, fu formato un referee dei più qualificati docenti della facoltà, Mercedes si incaricò di mettere in formato elettronico gli appunti, e cominciò un lungo periodo di routine per tutti.
Passarono alcuni mesi, e non ci furono dubbi. La ricerca di Birgham era LA soluzione. Fu pubblicata sul Quarterly Journal of Theoretical Phisics, suscitando uno scalpore enorme. “Questa volta è il Nobel, professore” gli augurò Olsen una mattina, portandogli una copia fresca di stampa del Journal; ne aveva un fascio in mano che cominciò a distribuire ai vari colleghi che trovava nel corridoio o nei loro uffici.
Fu poi un terremoto mediatico per il professor Birgham; Olsen si era lanciato come press-agent del suo mecenate e allora furono giornalisti di importanti riviste internazionali a richiedere articoli; furono riviste alla moda a sollecitargli “articoli divulgativi” per i propri lettori; diverse troupe televisive se lo contesero come ospite di una serata speciale.
Nonostante tutto, Birgham non sembrava per niente frastornato; passava all’articolo tecnicissimo, che solo poche persone al mondo erano in grado di capire, alla chiacchierata informale in uno studio televisivo per una diretta nella fascia di maggiore ascolto. La sua vita non sembrava cambiata, come se tutte le novità che stavano accadendo le avesse previste e, quasi, quasi, pianificate.
La sera della sua intervista per la più grande rete televisiva americana, dopo cena, gli venne voglia di fumare, un vizio che, anche se assai di rado, gli piaceva praticare. Ciabattò indolente verso la porta dello studio e si chiuse pian piano la porta alle spalle, lasciando la moglie a sparecchiare la tavola, con la TV, ormai a tutto volume, che trasmetteva uno dei suoi interventi.
Dal secondo cassetto della scrivania prese la sacca con il tabacco; l’odore, aromatico, gli fece pensare al lavoro: i suoi notes e la sua carta, che riempivano gli altri cassetti, avevano lo stesso profumo dolciastro.
Da uno dei contenitori nella libreria scelse poi una pipa e si mise in tasca una scatola di fiammiferi; assaporava già i momenti di tranquillità che avrebbe goduto di lì a poco.
Si diresse con calma, verso la porta-finestra che, conoscendo la s truttura della casa, si sarebbe detto si aprisse, senza scopo, sulla rimessa. Entrando di giorno nello studio, addossata com’era allo spigolo di uno scaffale, la porta si notava poco e dava l’impressione di essere inutilizzata da tempo e che al di là ci fosse, appunto, un muro.
Aprì la porta con decisione e uscì, invece, su una veranda; un’aria fredda e senza vento lo avvolse, facendolo rabbrividire e desiderare ancora di più il fornello acceso di una pipa.
Si sedette su una poltroncina, le sue cose da fumo sulle ginocchia, e si dovette togliere gli occhiali, appannati, per strofinarli contro i pantaloni. Quando li rimise si era già un po’ abituato al buio: lì fuori lampeggiavano le stelle, qualche pianeta e sparse macchie ovattate di galassie.
Cominciò a caricare la pipa. “Jay, ci sei?” disse, a voce poco più alta del normale, come quando si vuol attirare l’attenzione di un vicino un po’ distratto.
“Certo che ci sono” rispose subito una voce, più grave di quella del professore “sono sempre dappertutto, lo sai” e ghignò.
“Beh, hai visto? La faccenda è andata bene!”
“Sì, tutto è andato alla perfezione”
“Abbiamo scelto il momento giusto, da decenni andavano avanti con questa teoria generale delle forze, senza riuscire a sbloccarsi, e senza la nostra spinta….”
“Con Olsen è stato proprio un gioco da ragazzi, ha capito quasi subito e poi ha messo su tutta la fanfara dei giornali e della TV…”
“Già, Birgy, sei una star adesso: giornali, TV… guadagnerai un sacco di soldi” disse Jay e ghignò di nuovo.
“E’ proprio così, ho risolto tutti i problemi della famiglia”, fece una pausa, sbuffando verso il cielo il fumo della sua pipa, “Questo è un mondo molto strano…”. “Mah…” concluse poi, meditativo, senza voler significare nulla di particolare, troppo attento a che la pipa tirasse bene e la fumata durasse a lungo.
“Ora che gli ho dato la Teoria unificata dei campi, tra qualche anno ne vedremo delle belle, Jay. Chissà che fine faranno; forse pensano di diventare immortali!”
“Sei un po’ troppo spiritoso, per essere un professore” ribatté, sarcastico, Jay.
“E poi” continuò “di che ti preoccupi? Se la cosa non andrà bene e faranno saltare tutto in aria, faremo come abbiamo fatto le altre volte, no? Creeremo un altro Universo”.
Il professore rise, si mandò il fumo a traverso, tossì, rise ancora d’un riso acuto, quasi nervoso. Jahvé si unì a lui, con la sua risata bassa e tonante. Le stelle, le galassie, i mondi, lassù, sembrarono tremare tutti.
martedì 19 maggio 2009
La rossa e la gialla
Stanno tutti dormendo sull'autobus. La settimana è stata impegnativa un po' per tutti e il venerdì, pieno di traffico e di camion, sta lentamente riportando tutti a casa per il meritato week-end.
In tutto questo, però, c'è la rossa e la gialla che non dormono e anzi parlano. Parlano sempre, in continuazione. Di tutto.
La rossa dovrebbe avere circa 60 anni. Capelli rossi sempre in piega perfetta, come uscita un minuto prima dal parrucchiere. Sotto questa capigliatura, però, si scoprono rughe e decadenze proprie della sua età. Ancora sotto, l'eleganza continua con vesti di raso luccicante e brillantini.
L'altra, la gialla, ha un'età indefinita. Potrebbe avere l'irruenza tipica della gioventù. Oppure l'incazzatura col mondo tipica di un'età molto avanzata. Le primavere non hanno però lasciato ricordi sul suo volto. Cappellino sempre calcato sulla testa, coronata di biondi capelli lunghi. Il suo vestire ricorda una cinquantenne vestita da quindicenne.
La prima fila dell'autobus è già decisa: la rossa dietro l'autista nel posto centrale, la gialla dall'altra parte del corridoio. Se qualcuno occupa uno dei posti assegnati, fin dalle ultime file si vedono scintille di rabbia provenire dagli occhi della usurpata.
Conoscono naturalmente tutti gli autisti per nome (ma forse l'azienda assume soltanto dopo aver sentito il loro parere, chissà). Di certo è che l'azienda di trasporti riceve molte lamentele dalla gialla, mai contenta. Pullman sporchi, polvere, aria condizionata troppo alta, ritardo di 2 minuti, cinture di sicurezza alle poltroncine. Tutte richieste che si alternano giornalmente.
Oggi, ad esempio, non era la giornata delle cinture, né dell'aria condizionata, così hanno viaggiato con il ventilatore al massimo, benché la giornata non fosse eccessivamente calda, e nella totale assenza di sicurezza, ma con le grida per il ritardo accumulato nell'aspettare l'arrivo di un collega per ricevere il telepass.
Pochi giorni fa, invece, i passeggeri hanno viaggiato all'interno di un altoforno, con in sottofondo la sua tosse, dovuta alla polvere contenuta nei filtri del ventilatore dell'aria condizionata.
La rossa a volte cerca di calmarla, forse la saggezza dei vecchi, rimasta impigliata nelle rughe del volto, la aiutano a tenere a freno la gialla: “Zitta, zitta! Tanto è inutile, vedi che abbiamo perso solo 2 minuti?” “No, voglio dirglielo, abbiamo aspettato qui. E lo sanno che dobbiamo fare quel pezzo di autostrada... quindi il telepass lo devono lasciare sul pullman!” “Zitta!”.
In tutto questo, però, c'è la rossa e la gialla che non dormono e anzi parlano. Parlano sempre, in continuazione. Di tutto.
La rossa dovrebbe avere circa 60 anni. Capelli rossi sempre in piega perfetta, come uscita un minuto prima dal parrucchiere. Sotto questa capigliatura, però, si scoprono rughe e decadenze proprie della sua età. Ancora sotto, l'eleganza continua con vesti di raso luccicante e brillantini.
L'altra, la gialla, ha un'età indefinita. Potrebbe avere l'irruenza tipica della gioventù. Oppure l'incazzatura col mondo tipica di un'età molto avanzata. Le primavere non hanno però lasciato ricordi sul suo volto. Cappellino sempre calcato sulla testa, coronata di biondi capelli lunghi. Il suo vestire ricorda una cinquantenne vestita da quindicenne.
La prima fila dell'autobus è già decisa: la rossa dietro l'autista nel posto centrale, la gialla dall'altra parte del corridoio. Se qualcuno occupa uno dei posti assegnati, fin dalle ultime file si vedono scintille di rabbia provenire dagli occhi della usurpata.
Conoscono naturalmente tutti gli autisti per nome (ma forse l'azienda assume soltanto dopo aver sentito il loro parere, chissà). Di certo è che l'azienda di trasporti riceve molte lamentele dalla gialla, mai contenta. Pullman sporchi, polvere, aria condizionata troppo alta, ritardo di 2 minuti, cinture di sicurezza alle poltroncine. Tutte richieste che si alternano giornalmente.
Oggi, ad esempio, non era la giornata delle cinture, né dell'aria condizionata, così hanno viaggiato con il ventilatore al massimo, benché la giornata non fosse eccessivamente calda, e nella totale assenza di sicurezza, ma con le grida per il ritardo accumulato nell'aspettare l'arrivo di un collega per ricevere il telepass.
Pochi giorni fa, invece, i passeggeri hanno viaggiato all'interno di un altoforno, con in sottofondo la sua tosse, dovuta alla polvere contenuta nei filtri del ventilatore dell'aria condizionata.
La rossa a volte cerca di calmarla, forse la saggezza dei vecchi, rimasta impigliata nelle rughe del volto, la aiutano a tenere a freno la gialla: “Zitta, zitta! Tanto è inutile, vedi che abbiamo perso solo 2 minuti?” “No, voglio dirglielo, abbiamo aspettato qui. E lo sanno che dobbiamo fare quel pezzo di autostrada... quindi il telepass lo devono lasciare sul pullman!” “Zitta!”.
giovedì 14 maggio 2009
Respingimenti
Stavo camminando, piano, piano, lungo la via principale che, a quell’ora del mattino era già calda, complice il sole che, da alcune ore, la inondava senza alcuno schermo.
Affaticato dalla lieve salita e dal lungo tragitto che avevo percorso, mi tenevo sulla destra per approfittare di una fetta d’ombra che veniva dai palazzi, vecchi e alti, che si susseguono in questa parte centrale della città.
La borsa, in cui erano stivati il computer, un grosso blocco per appunti e varie altre cianfrusaglie informatiche e non, mi rendeva ancora più lento; l’inutilità dell’incontro che avevo avuto con un cliente e la quasi certezza che ne sarebbero seguiti altri, ugualmente inconcludenti, mi infastidiva un po’ ma non tanto da irritarmi; appena conosciuto personalmente il mio interlocutore, qualche giorno prima, avevo subito capito che mi avrebbe fatto solo perdere tempo, ma la rilevanza della sua azienda ed i lunghi rapporti economici con la mia mi costringevano ad una serie di incontri di cui, come dicevo, avevo subito intuito la vacuità.
Ma pensavo a tutt’altro, mentre camminavo, non certo al lavoro: buttavo occhiate incuriosite su quanti procedevano in senso opposto al mio e su chi, sorpassandomi con facilità, andava nella mia stessa direzione.
Ogni tanto un portone aperto su un androne scuro portava in strada una felice zona di fresco insieme a odori muffosi e stantii; qualche volta si intravedeva, oltre l’androne, la campagna lontana e allora c’era anche una bava di vento che mi lambiva, dandomi qualche secondo di sollievo.
A un tratto, là in fondo, sulla destra ecco la sagoma di qualcuno seduto su un gradino. La solita zingara con un bambino, pensai, ma poi mi accorsi che era una persona sola e intuii che era un uomo.
Poco prima di una via traversa lunga poche decine di metri che, sulla sinistra, porta a un’ampia piazza alberata, con aiuole e panchine, sulla destra c’è un palazzo di un bugnato in cemento, dipinto di grigio come la pietra serena della strada, che precede un altro palazzo, d’un giallo stizzoso e con un corpo leggermente rientrato rispetto agli altri, che invece di ospitare vetrine di banche o bar, apre un grande e unico portone. Sullo scalino che fa da soglia a questo portone, stranamente spalancato verso l’interno, stava seduto quello che, avvicinandomi me ne accorsi, era un vecchio; il gradino era quello d’ingresso di una chiesa.
C'è infatti in quel punto, quasi un garage a fronte strada, uno stanzone poco illuminato che solo quando ci passi davanti capisci che è una chiesa. Dalla via si vedono pochi ceri accesi e, spesso, un cartellone appoggiato a delle sedie che dice ai passanti, curiosi o indifferenti, quando c’è una messa o quando è possibile entrare a confessarsi.
Per un mendicante, pensai, è una posizione strategica anche se, al giorno d’oggi, chi vuoi che ti dia un centesimo! Ma il vecchio non stava chiedendo affatto l’elemosina: stava trafficando con qualcosa. In una mano aveva una bottiglietta d’acqua, con l’altra frugava in una sorta di tascapane, una volta sicuramente nero e adesso grigio e scolorito, alla ricerca di qualcosa. Ancora qualche passo avanti e distinsi la giacca verde, i pantaloni marroni, le scarpe marroni, grosse. Nelle mani aveva qualcosa e cercava di aprire la bottiglia.
Per un attimo fui eclissato da un corpo nero: dalla mia sinistra fui superato da un pretone, in tonaca, abbastanza giovane e robusto; un tipo moro, i capelli si sarebbero detti blu scuro più che neri e anche la pelle delle guance, ben rasate, aveva un colorito bluastro; il passo era deciso, le braccia dondolavano seguendo lo slancio del corpo.
Il vecchio si era versato un po’ d’acqua nel cavo della mano e si bagnava, con attenzione e parsimonia, le guance; accanto a sé, sul gradino della chiesa, aveva messo le poche cose che aveva cercato nello zainetto: un pezzo di sapone, un pennello e un rasoio di sicurezza.
“Eh, no, non è questo il posto!” gli fece il prete, a voce alta, minaccioso, parandoglisi davanti. Io ero ormai a pochi passi e vedevo la scena da vicino. “Devi andartene da qui”. Il vecchio riprese con una mano le cose posate sul gradino, con l’altra la bottiglia e lo zainetto e si alzò, a fatica; incrociò il suo sguardo con il mio: aveva gli occhi chiari e umidi. Non disse nulla e cominciò a trascinare i piedi con le scarpe grosse lontano da quell’angolo che non era più tranquillo per lui.
Mentre passavo proprio di fronte alla chiesa, vidi il prete sgonnellare dentro lo stanzone e lo sentii bofonchiare “Ci mancherebbe…”; ancora pochi passi e si sarebbe inginocchiato di fronte al Santissimo.
Affaticato dalla lieve salita e dal lungo tragitto che avevo percorso, mi tenevo sulla destra per approfittare di una fetta d’ombra che veniva dai palazzi, vecchi e alti, che si susseguono in questa parte centrale della città.
La borsa, in cui erano stivati il computer, un grosso blocco per appunti e varie altre cianfrusaglie informatiche e non, mi rendeva ancora più lento; l’inutilità dell’incontro che avevo avuto con un cliente e la quasi certezza che ne sarebbero seguiti altri, ugualmente inconcludenti, mi infastidiva un po’ ma non tanto da irritarmi; appena conosciuto personalmente il mio interlocutore, qualche giorno prima, avevo subito capito che mi avrebbe fatto solo perdere tempo, ma la rilevanza della sua azienda ed i lunghi rapporti economici con la mia mi costringevano ad una serie di incontri di cui, come dicevo, avevo subito intuito la vacuità.
Ma pensavo a tutt’altro, mentre camminavo, non certo al lavoro: buttavo occhiate incuriosite su quanti procedevano in senso opposto al mio e su chi, sorpassandomi con facilità, andava nella mia stessa direzione.
Ogni tanto un portone aperto su un androne scuro portava in strada una felice zona di fresco insieme a odori muffosi e stantii; qualche volta si intravedeva, oltre l’androne, la campagna lontana e allora c’era anche una bava di vento che mi lambiva, dandomi qualche secondo di sollievo.
A un tratto, là in fondo, sulla destra ecco la sagoma di qualcuno seduto su un gradino. La solita zingara con un bambino, pensai, ma poi mi accorsi che era una persona sola e intuii che era un uomo.
Poco prima di una via traversa lunga poche decine di metri che, sulla sinistra, porta a un’ampia piazza alberata, con aiuole e panchine, sulla destra c’è un palazzo di un bugnato in cemento, dipinto di grigio come la pietra serena della strada, che precede un altro palazzo, d’un giallo stizzoso e con un corpo leggermente rientrato rispetto agli altri, che invece di ospitare vetrine di banche o bar, apre un grande e unico portone. Sullo scalino che fa da soglia a questo portone, stranamente spalancato verso l’interno, stava seduto quello che, avvicinandomi me ne accorsi, era un vecchio; il gradino era quello d’ingresso di una chiesa.
C'è infatti in quel punto, quasi un garage a fronte strada, uno stanzone poco illuminato che solo quando ci passi davanti capisci che è una chiesa. Dalla via si vedono pochi ceri accesi e, spesso, un cartellone appoggiato a delle sedie che dice ai passanti, curiosi o indifferenti, quando c’è una messa o quando è possibile entrare a confessarsi.
Per un mendicante, pensai, è una posizione strategica anche se, al giorno d’oggi, chi vuoi che ti dia un centesimo! Ma il vecchio non stava chiedendo affatto l’elemosina: stava trafficando con qualcosa. In una mano aveva una bottiglietta d’acqua, con l’altra frugava in una sorta di tascapane, una volta sicuramente nero e adesso grigio e scolorito, alla ricerca di qualcosa. Ancora qualche passo avanti e distinsi la giacca verde, i pantaloni marroni, le scarpe marroni, grosse. Nelle mani aveva qualcosa e cercava di aprire la bottiglia.
Per un attimo fui eclissato da un corpo nero: dalla mia sinistra fui superato da un pretone, in tonaca, abbastanza giovane e robusto; un tipo moro, i capelli si sarebbero detti blu scuro più che neri e anche la pelle delle guance, ben rasate, aveva un colorito bluastro; il passo era deciso, le braccia dondolavano seguendo lo slancio del corpo.
Il vecchio si era versato un po’ d’acqua nel cavo della mano e si bagnava, con attenzione e parsimonia, le guance; accanto a sé, sul gradino della chiesa, aveva messo le poche cose che aveva cercato nello zainetto: un pezzo di sapone, un pennello e un rasoio di sicurezza.
“Eh, no, non è questo il posto!” gli fece il prete, a voce alta, minaccioso, parandoglisi davanti. Io ero ormai a pochi passi e vedevo la scena da vicino. “Devi andartene da qui”. Il vecchio riprese con una mano le cose posate sul gradino, con l’altra la bottiglia e lo zainetto e si alzò, a fatica; incrociò il suo sguardo con il mio: aveva gli occhi chiari e umidi. Non disse nulla e cominciò a trascinare i piedi con le scarpe grosse lontano da quell’angolo che non era più tranquillo per lui.
Mentre passavo proprio di fronte alla chiesa, vidi il prete sgonnellare dentro lo stanzone e lo sentii bofonchiare “Ci mancherebbe…”; ancora pochi passi e si sarebbe inginocchiato di fronte al Santissimo.
giovedì 7 maggio 2009
Inverso
I
Se n’era andato da Esse dopo la laurea in psicologia. Aveva passato in quella città quasi otto anni della sua vita. La sua carriera universitaria era cominciata alla facoltà di ingegneria ma dopo quasi due anni aveva preferito cambiare perché la matematica, hai voglia ad ostinarsi, non era proprio roba per lui. Dopo la laurea avrebbe potuto cominciare a fare qualcosa in città, magari avrebbe continuato con i soliti lavoretti al bar o nei pub come aveva fatto fino a poco prima di laurearsi e poi svettare nel giornalismo, come aveva sognato da sempre. C’erano gli amici che, a mano a mano, come i suoi capelli lunghi e riccioluti, si diradavano rapidamente. E in effetti, sia gli amici che i capelli se n’erano andati quasi tutti. Gli amici erano, alcuni, ritornati nei luoghi d’origine dopo il raggiunto titolo accademico, altri andati altrove a cercar ventura. Così anche lui decise di fare ugualmente: si rasò i capelli a zero, chiamò i suoi al telefono e disse “parto per Emme, a far che, lo deciderò strada facendo”.
Emme era di certo una metropoli in confronto a Esse, e lui non è che vi fosse molto abituato. Trovò ostello presso una coppia di amici-amanti che gli offrirono per vitto una congrua spartizione delle spese alimentari e alloggio un divano letto. Tutte le mattine si alzava di buona lena, prendeva la sua agenda, piccola ma corposa, foderata di pelle marrone, e incominciava ad appuntare date, luoghi, numeri di telefono, appuntamenti. Se li faceva tutti, gli appuntamenti, con la speranza di trovare un lavoro. All’inizio fu veramente dura. Camminava nel deserto cittadino come se lui stesso fosse un bandolero che attraversava una città centroamericana sospesa tra la fine e il principio del ventesimo secolo, avrete pur presente, no, quattro assi di legno in croce appiccicati con saliva e sudore, un saloon, il municipio, la banca e più in là, a far da sfondo metaforico, il cimitero. Insomma, sì, nevvero, si sentiva un po’ straniero. Poi gli amici-coppia riuscirono a dargli un’ulteriore mano, trovandogli una stanza a casa di una loro amica: il fitto era buono, la zona centrale. La compagnia pure, perciò poteva stare tranquillo, almeno relativamente. La vita, certo, era molto diversa da prima, da quando stava ad Esse.
Se n’era andato da Esse dopo la laurea in psicologia. Aveva passato in quella città quasi otto anni della sua vita. La sua carriera universitaria era cominciata alla facoltà di ingegneria ma dopo quasi due anni aveva preferito cambiare perché la matematica, hai voglia ad ostinarsi, non era proprio roba per lui. Dopo la laurea avrebbe potuto cominciare a fare qualcosa in città, magari avrebbe continuato con i soliti lavoretti al bar o nei pub come aveva fatto fino a poco prima di laurearsi e poi svettare nel giornalismo, come aveva sognato da sempre. C’erano gli amici che, a mano a mano, come i suoi capelli lunghi e riccioluti, si diradavano rapidamente. E in effetti, sia gli amici che i capelli se n’erano andati quasi tutti. Gli amici erano, alcuni, ritornati nei luoghi d’origine dopo il raggiunto titolo accademico, altri andati altrove a cercar ventura. Così anche lui decise di fare ugualmente: si rasò i capelli a zero, chiamò i suoi al telefono e disse “parto per Emme, a far che, lo deciderò strada facendo”.
Emme era di certo una metropoli in confronto a Esse, e lui non è che vi fosse molto abituato. Trovò ostello presso una coppia di amici-amanti che gli offrirono per vitto una congrua spartizione delle spese alimentari e alloggio un divano letto. Tutte le mattine si alzava di buona lena, prendeva la sua agenda, piccola ma corposa, foderata di pelle marrone, e incominciava ad appuntare date, luoghi, numeri di telefono, appuntamenti. Se li faceva tutti, gli appuntamenti, con la speranza di trovare un lavoro. All’inizio fu veramente dura. Camminava nel deserto cittadino come se lui stesso fosse un bandolero che attraversava una città centroamericana sospesa tra la fine e il principio del ventesimo secolo, avrete pur presente, no, quattro assi di legno in croce appiccicati con saliva e sudore, un saloon, il municipio, la banca e più in là, a far da sfondo metaforico, il cimitero. Insomma, sì, nevvero, si sentiva un po’ straniero. Poi gli amici-coppia riuscirono a dargli un’ulteriore mano, trovandogli una stanza a casa di una loro amica: il fitto era buono, la zona centrale. La compagnia pure, perciò poteva stare tranquillo, almeno relativamente. La vita, certo, era molto diversa da prima, da quando stava ad Esse.
martedì 5 maggio 2009
Terra conquistata
“E' stata proprio una giornata faticosa. Semifinale di Champions. Significa sempre gran lavoro. Significa sempre molte telefonate al Pizza Express e quindi molte corse con il mio motorino. Perché agli altri corrieri piace guardare la partita e a me non dispiace racimolare qualche euro in più.
Finalmente una bella doccia e poi il letto.”
Erano ormai le 1.30 passate quando finalmente Antonio poté sdraiarsi sul suo letto. Gli altri inquilini erano ancora fuori a far baldoria per la vittoria, ma ad Antonio quello sport proprio non interessava. Il suo sogno era mettere da parte un po' di soldi e comprarsi il motorino nuovo, e poi vedrai quante pizze avrebbe portato.
Si sdraiò sul letto, neanche fece in tempo ad infilarsi sotto le coperte che già Morfeo lo aveva rapito.
“Terra!” Eccolo il grido che aspettavamo da mesi. “Terra!” Quella terra sognata da mesi e ormai quasi insperata, finalmente si faceva trovare. E subito scoppiò la festa. Bottiglie di spumante, salve dei cannoni. Anche il comandante lasciò in coperta il suo sguardo severo per lasciarsi andare alla felicità di quella vittoria.
Calammo l'ancora e poco dopo eravamo già sulle lance per raggiungere la terra ferma che distava poche centinaia di metri.
Arrivati in spiaggia, qualcuno si lasciò cadere su quella sabbia così bianca, la baciavano... forse qualcuno la mangiava proprio. Io mi diressi dal comandante che subito ordinò una perlustrazione della zona e la creazione di un primo accampamento per la notte.
Gonzales ci ordinò di controllare la foresta e individuare alcuni posti per montare la guardia per la notte.
“Se troviamo qualche indigeno?”
“Se è armato, sparategli!”
E ne trovammo, armati di sole lance e frecce, con strani dipinti in volto. Seguimmo l'ordine del comandante, poi montammo la guardia.
Le 8, la sveglia, l'università. L'esame di matematica incombeva. Un cornetto e un cappuccino e via in biblioteca a studiare e a... dare votazioni alle belle avvocatesse che facevano a gara a vestirsi alla moda.
Finalmente una bella doccia e poi il letto.”
Erano ormai le 1.30 passate quando finalmente Antonio poté sdraiarsi sul suo letto. Gli altri inquilini erano ancora fuori a far baldoria per la vittoria, ma ad Antonio quello sport proprio non interessava. Il suo sogno era mettere da parte un po' di soldi e comprarsi il motorino nuovo, e poi vedrai quante pizze avrebbe portato.
Si sdraiò sul letto, neanche fece in tempo ad infilarsi sotto le coperte che già Morfeo lo aveva rapito.
“Terra!” Eccolo il grido che aspettavamo da mesi. “Terra!” Quella terra sognata da mesi e ormai quasi insperata, finalmente si faceva trovare. E subito scoppiò la festa. Bottiglie di spumante, salve dei cannoni. Anche il comandante lasciò in coperta il suo sguardo severo per lasciarsi andare alla felicità di quella vittoria.
Calammo l'ancora e poco dopo eravamo già sulle lance per raggiungere la terra ferma che distava poche centinaia di metri.
Arrivati in spiaggia, qualcuno si lasciò cadere su quella sabbia così bianca, la baciavano... forse qualcuno la mangiava proprio. Io mi diressi dal comandante che subito ordinò una perlustrazione della zona e la creazione di un primo accampamento per la notte.
Gonzales ci ordinò di controllare la foresta e individuare alcuni posti per montare la guardia per la notte.
“Se troviamo qualche indigeno?”
“Se è armato, sparategli!”
E ne trovammo, armati di sole lance e frecce, con strani dipinti in volto. Seguimmo l'ordine del comandante, poi montammo la guardia.
Le 8, la sveglia, l'università. L'esame di matematica incombeva. Un cornetto e un cappuccino e via in biblioteca a studiare e a... dare votazioni alle belle avvocatesse che facevano a gara a vestirsi alla moda.
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